scritture perdute
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Estratto da Il segreto degli Illuminati
Una volta sommersa Atlantide, nel 13.000 a.C., un senso di urgenza si è impadronito della fratellanza ogniqualvolta si sono presentati momenti di crisi. Così nelle grandi alluvioni del 9600 e del 6700 a.C., e allo stesso modo con le forti carestie del 2600 e del 1200 a.C. (quando gli Hyksos si facevano chiamare «Popoli del mare», «Shardana» in Sardegna, «Siculi» e «Tursha» in Italia, «Teucri» e «Lucca» in Turchia egea, «Libu» sulla costa africana). Il desiderio di sopravvivenza, se non del singolo, almeno della razza, ha fatto sì che venissero creati i Sette Sapienti, l’Occhio che Tutto Vede e con essi le Sale dei Documenti. Due sono state rintracciate dagli archeologi del Vaticano a Giza e nel deserto di Amman; un’altra, a Piedras Negras in Guatemala, è oggetto di intensa ricerca da parte della Edgar Cayce Foundation di Virginia Beach. Altre quattro sono venute alla luce in maniera del tutto imprevista. Nel corso del XX secolo, quattro anonimi personaggi si sono imbattuti per caso negli antichi depositi di civiltà scomparse. Musei casalinghi sono stati improvvisati su entrambe le sponde dell’Atlantico, catturando l’attenzione dei media e mettendo in imbarazzo l’archeologia ufficiale, molto più di quanto abbiano fatto la Pila di Baghdad o il Vaso di Dorchester. Queste raccolte di reperti sono passate alla storia con il nome dei fortunati scopritori, rispettivamente Tolone di Girifalco (Calabria), Crespi di Cuenca (Ecuador), Frandin di Glozel (Francia) e Burrows di Olney (Illinois). Tra i manufatti rinvenuti nel Nuovo Mondo ce ne sono alcuni di evidente fattura egiziana e mesopotamica, portati qui da un Colombo ante litteram o realizzati da minuziosi falsari. Purtroppo il governo degli Stati Uniti ha espropriato la zona dei ritrovamenti e vi ha imposto il divieto di accesso, precludendo così ulteriori indagini. Coincidenza notevole è la presenza in tutte e quattro le collezioni di una forma di scrittura iberica, la scrittura impiegata dai Pelasgi a partire dal loro arrivo in Europa. Ognuna comprende centinaia di statue e tavolette, e almeno una è collegata direttamente alla dinastia dei Falchi, o Serpente rosso che dir si voglia. Un’altra raccolta è venuta alla luce da strati geologici molto più antichi e la termoluminescenza ha confermato l’età di quasi 20.000 anni dei materiali ceramici. Non ci resta che scendere nei dettagli. Tolone di Girifalco La collezione Tolone è custodita nella casa di Girifalco del professore Salvatore Tolone Azzariti, insegnante di economia a Oxford. Girifalco si trova al centro della provincia di Catanzaro, il punto più stretto della penisola italiana, la regione che per prima fu chiamata «Italia» in onore al famoso re Italo. Secondo il mito greco, la nascita del regno di Italo avrebbe preceduto la guerra di Troia di sedici generazioni, collocandosi più o meno nel 1550 a.C. La data in questione è compatibile con l’ipotesi di un nobile hyksos, fuggito dall’Egitto durante la riconquista del faraone Kamose. Tucidide si riferiva all’attuale provincia di Catanzaro affermando che «quella regione fu chiamata Italia da Italo», un nome che solo in seguito venne esteso a tutta la penisola. Leggiamo in Aristotele: Divenne re dell’Enotria un certo Italo, dal quale si sarebbero chiamati, cambiando nome, Itali invece che Enotri. Dicono anche che questo Italo abbia trasformato gli Enotri, da nomadi che erano, in agricoltori e che abbia anche dato a essi altre leggi, e per primo istituito i sissizi. Per questa ragione ancora oggi alcune delle popolazioni che discendono da lui praticano i sissizi e osservano alcune sue leggi.1 Aristotele parlava dunque di un regno stabile che occupava l’estrema propaggine delle coste europee: l’attuale provincia di Catanzaro, delimitata a oriente dal Golfo di Squillace e a occidente dal Golfo di Sant’Eufemia. Antioco di Siracusa scriveva invece nel V secolo a.C.: L’intiera terra fra i due golfi di mari, il Nepetinico [Sant’Eufemia] e lo Scilletinico [Squillace], fu ridotta sotto il potere di un uomo buono e saggio, che convinse i vicini, gli uni con le parole, gli altri con la forza. Questo uomo si chiamò Italo che denominò per primo questa terra Italia. E quando Italo si fu impadronito di questa terra dell’istmo, e aveva molte genti che gli erano sottomesse, subito pretese anche i territori confinanti e pose sotto la sua dominazione molte città.2 Secondo Strabone la capitale del regno enotrio fu Pandosia Bruzia, la città fondata da Italo che corrisponde probabilmente all’odierna Acri. Di Italo parlava inoltre Virgilio nell’Eneide, compilata nel I secolo a.C. Si presume che questo re regnasse su Pandosia Bruzia e sul Nord dell’attuale Calabria, oltre che sulla zona ionica. Non si può comunque escludere che il dominio degli Enotri comprendesse in toto le odierne regioni Calabria e Basilicata. |
Nel gennaio 1972 una disastrosa perturbazione atmosferica colpì la zona di Girifalco per diverse giornate. L’avvocato Mario Tolone Azzariti (padre di Salvatore) fu incaricato di eseguire un sopralluogo tecnico nelle zone interessate dalle piogge torrenziali: durante un’ispezione, oltre ai danni causati dal maltempo, notò la presenza di una fenditura di quasi 6 metri nella roccia, da cui emergeva una voluminosa pietra ricoperta dal fango. Si trattava di un volto dai tratti stralunati, le cui sembianze non avevano nessun legame con il mondo della Magna Grecia.
Da allora fino ai primi Novanta Mario Tolone esplorò crepacci e cavità nelle pareti scoscese, scavando ancora al di sotto dei costoni per esaminare il materiale franato nei millenni. In più di vent’anni furono recuperate oltre 800 statuette e tavolette in pietra o terracotta di pregevole fattura, cosparse di iscrizioni in lingua iberica. Il pezzo più curioso della collezione è senz’altro la sculturina di un’iguana delle Galapagos (riconoscibile dalle creste dorsali), decisamente atipica nel panorama calabro.
Ufficialmente gli esemplari più antichi di scrittura iberica sono stati riconosciuti da Harald Haarmann del Research Centre on Multilingualism di Bruxelles: si tratta di incisioni risalenti fino al 6000 a.C., impresse in vasi destinati al culto, figurine e oggetti rituali della cultura di Vinca (Balcani). Inizialmente la scrittura iberica era destinata all’espressione della lingua proto-basca dei Cro-Magnon, ma senza soluzione di continuità si è evoluta nei caratteri euboici, fenici, venetici ed etruschi, arrivando alle soglie dell’impero romano. È pertanto difficile ricavare l’età dei reperti sulla base dei soli caratteri. D’altro canto, Salvatore Tolone è convinto che i suoi reperti appartengano al popolo dei Feaci (phaiakes, da phalkones, «falchi») e che pertanto debbano considerarsi relativamente recenti (dall’VIII al XVI secolo a.C.). A sostegno della sua ipotesi, Tolone fornisce numerose coincidenze toponomastiche, prima di tutto lo stesso nome Girifalco che deriva da kurios-phalkos, ovvero il «Signore-falco» o il «Dio-falco». Il riferimento al falco non è nuovo in queste pagine, e la connessione coi Seguaci di Horus viene spontanea.
Omero scrisse che i Feaci erano i marinai più esperti dei tempi antichi. Disse che le loro imbarcazioni non avevano bi sogno né di timone né di timonieri, che avevano intelletto e conoscevano le intenzioni degli uomini che portavano. Conoscevano le rotte verso città e campagne e navigavano rapidissime sulle onde, coperte dalla nebbia senza il timore di spezzarsi o di affondare.
Ma i Feaci non primeggiavano soltanto nelle arti nautiche. Omero li descrisse come esperti e sapienti in tutte le arti e le istituzioni civili: ci parla di soglie di bronzo, pareti splendenti di rame con fregi in metallo ceruleo, stipiti d’argento, anelli d’oro alle porte, immagini di cani d’oro e d’argento sugli ingressi. Erano appassionati amatori dei balli, della musica, dei banchetti festosi, dei bagni tiepidi e del «mutar vesti».3 I loro orti erano pieni di frutti mai visti dal sapore dolce e le Feacesi erano senza eguali nel mestiere della tessitura.4
I Feaci erano originari dell’isola di Ogigia e il sangue nelle loro vene era lo stesso dei Ciclopi (i Siculi). Dato che i Siculi figurano tra i Popoli del mare, ne consegue che anche i Feaci appartenevano allo stesso ceppo. La parentela non fu però sufficiente a garantire la pace tra i vicini, perché proprio i contrasti con i Siculi costrinsero i Feaci ad abbandonare la loro terra, trasferendosi in toto nella nuova patria di Corcira (Corfù). A far loro da guida c’era Nausitoo, il figlio di quella ninfa Calipso che trattenne Ulisse a Ogigia per dieci anni.
Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) viene incontro a Tolone collocando Ogigia a pochi chilometri da Girifalco, di fronte alla costa della Locride a sud del promontorio Lacinio (Capo Colonna), un luogo dove un’isola Ogigia è segnata in chiaro nelle carte antiche.5 In ogni caso è certo che i reperti di Tolone appartenessero a una cultura guerriera, come è evidente dai rilievi di spade e scudi presenti sulle urne cinerarie. Può anche darsi che il popolo dei Feaci fosse costituito da sovrani hyksos che governavano un popolo autoctono, probabilmente gli Enotri.
Molto più antica dei reperti di Tolone è invece una statua colossale di roccia nel territorio di Campana, 75 chilometri a nordest di Girifalco. Da qualunque direzione la si guardi, rimane un elefante: quindi si tratta di un’opera dell’uomo. Si intravedono comunque le zanne, non arcuate come per l’elefante indiano o africano, ma dritte verso il basso, come nell’Elephans antiquus, presente in Calabria fino al 10.000 a.C. Alta 5 metri, la scultura riproduce esattamente l’animale in scala 1:1. Lo scheletro di un esemplare è stato trovato alcuni anni fa nel rione Archi di Reggio Calabria. Dietro una zanna si può ancora notare una forma cilindrica mutilata: potrebbe essere la gamba di un uomo a cavallo dell’animale.
A tre metri dall’elefante si trova una seconda statua maggiormente erosa: sono due gambe, dai piedi alle ginocchia e parte dei polpacci di un uomo seduto. La parte superiore è crollata e i suoi frammenti giacciono sul terreno circostante. Quanto rimane raggiunge ancora i 6 metri, suggerendo un’altezza originaria di circa 15 metri.
È piuttosto naturale chiedersi se gli artefici di tali sculture colossali possano essere gli stessi autori del leone sulla piana di Giza. Del resto ci fu senz’altro un’epoca remota in cui l’intero Mediterraneo era abitato dalle stesse genti._
La Cueva de los Tayos
La seconda collezione di cui ci occupiamo è la collezione Crespi, i cui reperti provengono dalla Cueva de los Tayos, una grotta naturale situata ai piedi delle Ande ecuadoriane, nella provincia amazzonica di Morona Santiago. Il nome deriva da una razza di pipistrelli chiamata «Tayos», che popola abbondantemente i suoi locali. L’entrata si apre a un’altitudine di 520 metri, in una zona montagnosa irregolare al limitare della foresta. Un camino verticale si getta nel vuoto per 63 metri, con un diametro alla bocca di circa 2 metri. A partire dal fondo si sviluppa un percorso di 5 chilometri, con camere abbastanza ampie da contenere una cattedrale.
La zona è abitata dagli indigeni Shuar o Jívaro, il cui popolo è rimasto indipendente per secoli, resistendo ai tentativi di conquista sia degli Inca sia dei missionari spagnoli. Gli Shuar vivono ai margini della foresta amazzonica ecuadoriana, distribuiti fra le colline ai piedi delle Ande (muraiya shuar) e le pianure più a est (achu shuar), sforando in territorio peruviano.
Gli Shuar, oggi cattolici, praticarono una religione shamanica fino agli inizi del XX secolo, quando furono convertiti dai padri Gesuiti. In particolare, credevano che l’anima di uno Shuar morto in pace si tramutasse in wakanì, una sorta di «spirito guida». Una morte violenta generava invece un muisak, uno spirito malvagio che possedeva i nemici.
L’ammissione al gruppo degli adulti comprendeva un rito di passaggio: all’età di otto anni, i ragazzi venivano condotti dai padri a una cascata vicina, per un periodo da tre a cinque giorni. Durante questo tempo bevevano solo acqua di tabacco, finché a un certo punto ricevevano un’erba allucinogena chiamata maikua (Datura arborea, Solanacee).
Grazie alla maikua i ragazzi accedevano alle visioni create da un wakaní: se il candidato fosse stato abbastanza coraggioso avrebbe potuto toccare la visione e assorbire il wakaní. Questa «unione» avrebbe notevolmente fortificato il ragazzo, mentre la possessione da parte di più wakaní l’avrebbe reso invincibile.
La possessione da parte di un muisak, invece, permetteva ai maschi shuar di controllare il lavoro delle proprie mogli e figlie. Le donne coltivavano manioca e fabbricavano la chicha (birra di manioca), che insieme fornivano alla dieta shuar la maggior parte delle calorie e dei carboidrati; così il loro lavoro diventava cruciale al mantenimento della vita biologica e sociale.
Per assorbire il muisak, gli uomini shuar rimpicciolivano le teste dei nemici uccisi in battaglia, affumicandole con un complesso procedimento. Alla fine del XIX e durante il XX secolo gli europei e i coloni americani iniziarono a scambiare prodotti, tra cui fucili da caccia, in cambio delle teste rimpicciolite (tzantzas). Ciò provocò un aumento delle guerriglie locali, contribuendo allo stereotipo dello Shuar violento.
Il rapporto tra gli Shuar e la caverna assume toni di reverenza religiosa. Quando si avvicinano alla Cueva, essi intonano canti in onore del «signore della grotta», affinché li preservi da incidenti e da punture di insetti velenosi.
L’archeologo ecuadoriano Pedro Porras visitò la grotta negli anni Quaranta, riportando vasi e monili in ceramica e pietra, oggi conservati al museo Weilbauer, dell’Università cattolica di Quito. I reperti furono inviati all’Università di Colonia per una datazione col metodo della termoluminescenza, ottenendo la data del 1500 a.C. Il dottor Porras concluse che la grotta era stata la tomba di un importante personaggio aborigeno, probabilmente un governante. Oggi il custode dei reperti e direttore dell’intero museo è il figlio di Porras, Patricio Moncayo.
I reperti di Porras (ora visibili al museo) finirono in qualche scaffale dimenticato fino agli anni Ottanta, tanto che nel 1964 la grotta fu esplorata dall’ungaro-argentino Juan Moricz, ritenuto a lungo il primo visitatore della Cueva. Moricz dichiarò di aver trovato un tesoro di lamine metalliche che però non mostrò mai a nessuno. Egli scrisse comunque un rapporto di denuncia e lo consegnò al proprio avvocato, Gerardo Pena Matheus, che lo conserva ancora oggi nella propria abitazione. Un estratto del testo, protocollato alla notaria di Uaiakil, riporta le seguenti parole:
Ho trovato oggetti preziosi di grande valore culturale e storico per l’umanità, che consistono in lamine metalliche incise con segni e scrittura ideografica, una vera biblioteca di metallo che contiene la cronologia della storia umana. Tali oggetti erano raggruppati in varie e distinte cavità.6
Moricz aggiunse di aver trovato una vera e propria città sotterranea. Percorrendo il corridoio a est, dopo il camino d’ingresso, si incontra in effetti una struttura curiosa, una muraglia alta più di 10 metri e larga altrettanto, composta da blocchi squadrati (5 × 2 × 1 metri circa). Il muro s’interrompe a 2 metri dal suolo, disegnando un arco dal soffitto piatto e liscio, battezzato «Arco Juan Moricz». A pochi passi dall’arco si apre un tunnel regolare di sezione 1 × 1 metri e lungo 100 metri, che conduce al primo grande locale, largo 12 e alto 20 metri. Seguono altri corridoi e stanzoni, fino al famoso «anfiteatro» al termine del percorso.
Nel 1969 partì la prima spedizione formale, a cui partecipò lo stesso Pena. Nel 1976 l’ingegnere José Stanley Hall pianificò e diresse una spedizione scientifica con l’appoggio del governo britannico: vi presero parte 120 persone, tra cui archeologi, biologi e botanici, provenienti dall’Ecuador e dal Regno Unito, per una spesa totale di oltre 2 milioni di dollari. Nel gruppo figuravano militari scozzesi e membri dell’intelligence britannica, insieme all’astronauta Neil Armstrong, nominato presidente onorario. Al termine dell’ispezione i geologi inglesi rilasciarono la seguente dichiarazione: «La Cueva de los Tayos non costituisce un monumento archeologico, come è stato detto, ma geologico. Sono antiche formazioni la cui morfologia naturale non è stata modificata dall’uomo. La grotta può essere classificata come una delle più importanti in Sud America».7
Non c’era nessuna città sotterranea: i blocchi squadrati erano stati creati dalla naturale azione erosiva dell’acqua. Tali conclusioni sono state confermate dalla spedizione ecuadoriana del 2010, guidata dal capitano Daniel Flore.
Torniamo ora ai reperti, soffermandoci sui presunti rinvenimenti di Juan Moricz. Stando alle sue parole, oggetti simili sarebbero appartenuti a padre Crespi, parroco di Cuenca, una cittadina 90 chilometri a ovest della Cueva. Si tratta di 5000 pezzi, soprattutto lamine, incisi con disegni e iscrizioni. Tremila pezzi sono di oro puro, con inserti in pietre preziose. Il dato sorprendente riguarda i caratteri delle incisioni, identici a quelli riscontrati in Calabria sui reperti della collezione Tolone. Gli Shuar hanno donato i loro oggetti a padre Crespi nel corso degli anni, formando man mano l’attuale collezione. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1982, la collezione è passata in eredità all’ordine salesiano di Cuenca.
Potremmo supporre che gli oggetti metallici siano contemporanei alle ceramiche del dottor Porras; in tal caso dovremmo valutare l’ipotesi che i Feaci fossero giunti nel Nuovo Mondo già intorno al 1500 a.C., o al posto loro un altro popolo del mare. I viaggi transoceanici avrebbero consentito lo scambio di manufatti provenienti da ogni parte del Mediterraneo e del Medio e Vicino Oriente. Questi navigatori erano davvero così abili come li ha descritti Omero?_
Frandin di Glozel
Tremila reperti con lo stesso tipo di iscrizioni furono ritrovati a Glozel, un villaggio a sudest di Vichy, in Francia. Era il 1924 quando il giovane contadino Émile Fradin si imbatté in una sensazionale scoperta: stava arando il suo campo quando il terreno cedette sotto il peso dei buoi, rivelando una fossa colma di tavolette d’argilla, sculture, urne, pietre e persino ossa riccamente decorate. Tra il 1924 e il 1930 gli archeologi continuarono a estrarre reperti, liberandoli da strati di terreno la cui formazione era databile tra il 17.000 e il 15.000 a.C. Nel 1925 furono rinvenute ossa umane gigantesche, crani grandi il doppio del normale, impronte di mani enormi, oltre a monili fatti su misura per simili arti. Le tavolette sono cosparse d’iscrizioni, sebbene le teorie ufficiali neghino l’esistenza della scrittura in quell’epoca remota. Su alcune pietre è addirittura disegnata una renna, animale scomparso da quelle latitudini alla fine dell’ultima Era glaciale. Nonostante i tentativi di screditare la scoperta, nel 1974 la termoluminescenza ha confermato le datazioni stratigrafiche.
Le tavolette di Glozel attirarono immediatamente l’attenzione di James Churchward, un famoso colonnello inglese che aveva da poco superato i settant’anni. James era fratello del massone Albert Churchward e nel 1926 avrebbe dato alle stampe la sua opera più famosa, dal titolo eloquente di Mu, il continente perduto.
All’età di 27 anni era stato inviato dal governo inglese sull’altopiano del Deccan, nell’India meridionale, e qui era entrato in contatto con il sommo sacerdote del tempio indù di Hampi, nello Stato di Karnataka. Era il 1868 e il paese era martoriato da una grave carestia che avrebbe lasciato dietro di sé cinque milioni di cadaveri.
Churchward scoprì di avere in comune con il sacerdote una grande passione per l’archeologia, così che i due divennero presto amici e il colonnello si stabilì in pianta stabile nel tempio nelle vesti di aiutante. Un giorno era intento ad ammirare un’iscrizione sul muro interno dell’edificio, quando il sacerdote gli si avvicinò e gli rivelò che si trattava di una lingua estremamente antica, la cui interpretazione era nota ai soli iniziati. Aggiunse che all’interno del tempio esistevano svariate tavolette con iscrizioni nella stessa lingua, facenti parte di una collezione molto più vasta. Neanche a dirlo, i caratteri erano dello stesso tipo riscontrato a Glozel, Cuenca, Olney e Girifalco.
Le tavolette di Hampi erano venute alla luce in un sito dimenticato delle sette città sacre dell’India, una tra Varanasi, Haridwar, Ayodhya, Mathura, Dwarka, Kanchipuram e Ujjain. Il sacerdote disse a Churchward che le tavolette erano state scritte migliaia di anni prima dai Sacri Fratelli Naacal, in un linguaggio oscuro e pregno di significati esoterici.
I Naacal sarebbero arrivati in Asia 15.000 anni fa, dopo che un cataclisma avrebbe fatto sprofondare la loro patria: il continente Mu o Lemuria. Forse si tratta ancora dei Sette Sapienti, tanto più se pensiamo che le loro navi avrebbero raggiunto ogni angolo del mondo, portando con sé la scienza, la religione e le rotte commerciali. Gli stessi Veda affiancano agli Arii (i Pelasgi), venuti da Occidente, un secondo gruppo umano - benché ristretto - approdato in India da un luogo oltre mare. Sono i "Brighus", un ordine di adepti iniziati alle antiche conoscenze e guidati da un "re-serpente" chiamato Nahusha.
La sacralità dei reperti di Hampi era tale da proibire l’apertura delle loro custodie, ma la curiosità dei due uomini era molto maggiore del senso del dovere. Le tavolette si rivelarono un impasto di argilla cotta al sole e il sacerdote le tradusse integralmente, educendo al contempo il suo ospite sulla lingua dei Naacal. Stando a Churchward, il contenuto avrebbe contemplato la creazione del mondo e dell’uomo, il quale sarebbe apparso per la prima volta a Mu, un vasto territorio ondulato che si estendeva nell’Oceano Pacifico. Il confine settentrionale coincideva con le attuali isole Hawaii, mentre il confine meridionale tracciava una lunga linea tra l’Isola di Pasqua e le Fiji. Mu era ricco di vegetazione tropicale, fiumi, laghi e grandi animali. Misurava 8000 chilometri da est a ovest e 5000 da nord a sud, con una popolazione che al culmine della sua storia contava 64 milioni di individui, divisi in 10 tribù o stirpi e governati da un unico re-sacerdote di razza bianca detto Ra-Mu.
In questo senso riscontriamo una somiglianza con l’Atlantide di Platone, dove esistevano 10 re che governavano 10 regioni, pur restando sottomessi a un singolo re centrale. Infine il dettaglio della «razza bianca» potrebbe riferirsi alla solita razza pelasgica, bianca dai capelli biondo-rossicci e gli occhi chiari.
Il regno di Ra-Mu si autodefiniva «impero del Sole» e la religione praticata era unica per tutti gli abitanti: essi adoravano una divinità solare indicata con il nome fittizio di «Ra», mentre il vero nome non si poteva né scrivere né pronunciare.
Gli abitanti di Mu credevano nell’immortalità dell’anima e del suo futuro ritorno a Dio. Erano fieri naviganti, architetti della pietra e scultori. I «muani» fondarono diverse colonie, tra cui l’impero di Mayax in America, l’impero Uighur nell’Asia centrale e nell’Est europeo e il regno dei Naga nell’Asia meridionale. Uighur avrebbe avuto la capitale nel deserto di Gobi, in Cina, dove sorse più tardi l’antica città di Khara-Khoto, sulla riva sudoccidentale del lago Baykal. L’archeologo russo Pyotr Kozlov scavò le rovine del sito tra il 1907 e il 1909 e scoprì una tomba dipinta a 15 metri di profondità, vecchia almeno 18.000 anni. Al suo interno c’erano i resti di un re e di una regina adornati con pendenti che riportavano le insegne di Mu: una M, il Tau e un cerchio attraversato da una linea verticale.
Il colonnello trovò altri dettagli sulla fine di Mu in un manoscritto venuto alla luce in un antico tempio di Lhasa, in Tibet. Infine, l’archeologo William Niven scoprì alcune città presso il lago Texcoco, in Messico, che 7000 anni fa erano state sepolte dalla lava del vulcano Ajusca. Nel 1921 Niven raccolse qui ben 2600 tavolette che facevano riferimento a Mu. Purtroppo, come spesso accade in questi casi, le tavolette andarono smarrite (o furono sequestrate) durante il loro trasporto in Inghilterra.
Burrows Cave
La caverna nota come Burrows Cave prende il nome dal suo scopritore, Russell Burrows di Olney, Illinois, che la esplorò nei primi anni Ottanta.8 Centinaia, se non migliaia, di manufatti, molti con ritratti umani e iscrizioni, sono stati recuperati dalla grotta col benestare del proprietario del terreno.
Dopo Burrows, nessuno vi è mai più entrato: una legge del 1988 dell’Illinois ha infatti espropriato il terreno, trasferendo allo Stato il controllo della grotta e il possesso del suo contenuto. A chiunque è proibito entrarvi, e sono previste sanzioni penali per i trasgressori. Ci viene il sospetto che la legge sia stata promulgata appositamente per nascondere informazioni «scomode». C’è quindi il pericolo che i manufatti rimasti nella grotta finiscano sepolti in qualche museo statale e non siano mai resi noti.
Molte delle iscrizioni consistono in lettere sparpagliate che non si possono tradurre con sicurezza. Molte altre sono disponibili soltanto in fotografie sfocate. A ogni modo sembrano esistere vari tipi di scrittura, compresa la scrittura di Glozel, Cuenca e della raccolta Tolone. Per quanto riguarda i reperti egizi, è opinione comune che si tratti di manufatti mercanteggiati da Shardana o Fenici, per i quali sussistono inequivocabili ritrovamenti in Brasile. Lo stesso vale – al contrario – per i dischi e le statuette zapoteche ritrovate in Puglia a inizio 2012.
I destinatari del mercato fenicio comprendevano gli indiani Hopi. Questa tribù di nativi sosteneva di provenire da un mondo sotterraneo chiamato «Sipapuni», occupato 5000 anni fa da una razza «lucertiforme». Un complesso antichissimo di gallerie che si estende sotto Los Angeles è stato rintracciato nel 1933 dall’ingegnere minerario Warren Shufelt e in quel luogo ancora oggi si compiono rituali di scuole esoteriche. Nel 1909 G.E. Kincaid ha scoperto una città sotterranea vicino al Gran Canyon, in Arizona. Era grande abbastanza da ospitare 50.000 persone e sul posto sono stati trovati dei corpi mummificati che secondo il capo missione, S.A. Jordan, erano di origine orientale o probabilmente egizia.9 Furono rinvenuti anche numerosi manufatti, compresi utensili di rame duri come acciaio.
Iscrizioni madianite (dette anche proto-sinaitiche o proto-fenicie) sono state rinvenute da James R. Harris sulle rocce di caverne e strapiombi in sei diversi stati nel Sudovest degli Stati Uniti. Tra queste figura il nome di Yahweh nei tre modi tradizionali già rinvenuti nelle rocce del Sinai, ovvero Yah, Yahh, e Yahu. Harris ha confrontato ben 120 iscrizioni del Negev (Sinai nordorientale) con 400 iscrizioni americane, ed è arrivato all’inevitabile conclusione che uomini del Sinai adoranti Yahweh avevano trovato la strada per raggiungere l’America quantomeno 3500 anni fa.10
In America i Fenici istituirono nuove logge dell’Occhio che nei secoli successivi si mantennero in costante contatto con le loro consorelle in Europa. Tant’è vero che il Nuovo Continente fu colonizzato nel momento più propizio, come se i Conquistadores avessero una «talpa» all’interno dei popoli indigeni. Gli Aztechi aspettavano il ritorno di un dio bianco e barbuto chiamato Quetzalcoatl (di cui abbiamo discusso abbondantemente in The Three Ages of Atlantis). Cortés incarnava fisicamente il dio tanto atteso, e non a caso le sue navi attraccarono nel golfo di Veracruz, proprio il luogo che secondo le profezie avrebbe visto l’approdo di Quetzalcoatl. Le profezie includevano una data, che tradotta nel calendario Giuliano corrispondeva al 1519, anno dell’arrivo di Cortés. Gli Aztechi credevano che il dio avrebbe indossato un abito consono al suo appellativo di «serpente piumato», così che Cortés approdò in Messico indossando delle piume. Anche la croce cristiana, ostentata dai coloni, apparteneva ai simboli del dio. Il popolo azteco e il suo re Montezuma credettero che Cortés fosse il dio tanto atteso, e fu questo vantaggio che gli permise di distruggere un impero con l’impiego, pensate, di soli 58 uomini.
Nel settembre del 1993, Burrows ha donato una pietra contenente delle iscrizioni alla dottoressa Beverley Moseley, della Midwestern Epigraphic Society (Columbus, Ohio). Burrows sostiene di aver trovato la pietra nel 1984, nell’«Area 4» del corridoio principale. I manufatti di quest’area erano sepolti nell’argilla, trasportati da un’alluvione che avrebbe insabbiato gran parte del passaggio. La pietra in questione figura tra le più grandi della raccolta; un lato della pietra è ricoperto da un’iscrizione lunga e ben organizzata, sufficiente a gettare qualche luce sulla sua natura.
Si possono distinguere chiaramente 37 lettere, sovrastate sulla cima da un simbolo che assomiglia al Tanit fenicio. Sotto l’iscrizione appare invece un occhio umano destro.
Le lettere mostrano tracce di erosione, segno di un lungo periodo di esposizione all’aria. L’occhio umano sembra suggerire un orientamento, benché non sia ovvio il verso di lettura, da sinistra a destra o da destra a sinistra.
Sull’altra faccia è disegnata la testa di un uccello, insieme a 27 lettere sparpagliate. È anche presente una linea, intersecata da gruppi di barre ortogonali, simile a un’iscrizione ogamica (la scrittura dei Celti).
Gran parte dei ricercatori accademici continua a negare l’originalità dei reperti, facendoli passare per l’opera di un falsario alla ricerca di gloria. È sicuramente possibile che i signori Tolone, Crespi, Fradin e Burrows abbiano aggiunto qualche pezzo contraffatto, copiando lo stile e i caratteri dei pezzi originali. Potrebbero averlo fatto per mantenere accesa la propria fama, continuando a mostrare al mondo nuove scoperte quando in effetti erano esaurite. Tuttavia è impossibile che abbiano inventato da zero tutti i reperti, compresa una forma di scrittura identica per tutti e quattro.
Da allora fino ai primi Novanta Mario Tolone esplorò crepacci e cavità nelle pareti scoscese, scavando ancora al di sotto dei costoni per esaminare il materiale franato nei millenni. In più di vent’anni furono recuperate oltre 800 statuette e tavolette in pietra o terracotta di pregevole fattura, cosparse di iscrizioni in lingua iberica. Il pezzo più curioso della collezione è senz’altro la sculturina di un’iguana delle Galapagos (riconoscibile dalle creste dorsali), decisamente atipica nel panorama calabro.
Ufficialmente gli esemplari più antichi di scrittura iberica sono stati riconosciuti da Harald Haarmann del Research Centre on Multilingualism di Bruxelles: si tratta di incisioni risalenti fino al 6000 a.C., impresse in vasi destinati al culto, figurine e oggetti rituali della cultura di Vinca (Balcani). Inizialmente la scrittura iberica era destinata all’espressione della lingua proto-basca dei Cro-Magnon, ma senza soluzione di continuità si è evoluta nei caratteri euboici, fenici, venetici ed etruschi, arrivando alle soglie dell’impero romano. È pertanto difficile ricavare l’età dei reperti sulla base dei soli caratteri. D’altro canto, Salvatore Tolone è convinto che i suoi reperti appartengano al popolo dei Feaci (phaiakes, da phalkones, «falchi») e che pertanto debbano considerarsi relativamente recenti (dall’VIII al XVI secolo a.C.). A sostegno della sua ipotesi, Tolone fornisce numerose coincidenze toponomastiche, prima di tutto lo stesso nome Girifalco che deriva da kurios-phalkos, ovvero il «Signore-falco» o il «Dio-falco». Il riferimento al falco non è nuovo in queste pagine, e la connessione coi Seguaci di Horus viene spontanea.
Omero scrisse che i Feaci erano i marinai più esperti dei tempi antichi. Disse che le loro imbarcazioni non avevano bi sogno né di timone né di timonieri, che avevano intelletto e conoscevano le intenzioni degli uomini che portavano. Conoscevano le rotte verso città e campagne e navigavano rapidissime sulle onde, coperte dalla nebbia senza il timore di spezzarsi o di affondare.
Ma i Feaci non primeggiavano soltanto nelle arti nautiche. Omero li descrisse come esperti e sapienti in tutte le arti e le istituzioni civili: ci parla di soglie di bronzo, pareti splendenti di rame con fregi in metallo ceruleo, stipiti d’argento, anelli d’oro alle porte, immagini di cani d’oro e d’argento sugli ingressi. Erano appassionati amatori dei balli, della musica, dei banchetti festosi, dei bagni tiepidi e del «mutar vesti».3 I loro orti erano pieni di frutti mai visti dal sapore dolce e le Feacesi erano senza eguali nel mestiere della tessitura.4
I Feaci erano originari dell’isola di Ogigia e il sangue nelle loro vene era lo stesso dei Ciclopi (i Siculi). Dato che i Siculi figurano tra i Popoli del mare, ne consegue che anche i Feaci appartenevano allo stesso ceppo. La parentela non fu però sufficiente a garantire la pace tra i vicini, perché proprio i contrasti con i Siculi costrinsero i Feaci ad abbandonare la loro terra, trasferendosi in toto nella nuova patria di Corcira (Corfù). A far loro da guida c’era Nausitoo, il figlio di quella ninfa Calipso che trattenne Ulisse a Ogigia per dieci anni.
Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) viene incontro a Tolone collocando Ogigia a pochi chilometri da Girifalco, di fronte alla costa della Locride a sud del promontorio Lacinio (Capo Colonna), un luogo dove un’isola Ogigia è segnata in chiaro nelle carte antiche.5 In ogni caso è certo che i reperti di Tolone appartenessero a una cultura guerriera, come è evidente dai rilievi di spade e scudi presenti sulle urne cinerarie. Può anche darsi che il popolo dei Feaci fosse costituito da sovrani hyksos che governavano un popolo autoctono, probabilmente gli Enotri.
Molto più antica dei reperti di Tolone è invece una statua colossale di roccia nel territorio di Campana, 75 chilometri a nordest di Girifalco. Da qualunque direzione la si guardi, rimane un elefante: quindi si tratta di un’opera dell’uomo. Si intravedono comunque le zanne, non arcuate come per l’elefante indiano o africano, ma dritte verso il basso, come nell’Elephans antiquus, presente in Calabria fino al 10.000 a.C. Alta 5 metri, la scultura riproduce esattamente l’animale in scala 1:1. Lo scheletro di un esemplare è stato trovato alcuni anni fa nel rione Archi di Reggio Calabria. Dietro una zanna si può ancora notare una forma cilindrica mutilata: potrebbe essere la gamba di un uomo a cavallo dell’animale.
A tre metri dall’elefante si trova una seconda statua maggiormente erosa: sono due gambe, dai piedi alle ginocchia e parte dei polpacci di un uomo seduto. La parte superiore è crollata e i suoi frammenti giacciono sul terreno circostante. Quanto rimane raggiunge ancora i 6 metri, suggerendo un’altezza originaria di circa 15 metri.
È piuttosto naturale chiedersi se gli artefici di tali sculture colossali possano essere gli stessi autori del leone sulla piana di Giza. Del resto ci fu senz’altro un’epoca remota in cui l’intero Mediterraneo era abitato dalle stesse genti._
La Cueva de los Tayos
La seconda collezione di cui ci occupiamo è la collezione Crespi, i cui reperti provengono dalla Cueva de los Tayos, una grotta naturale situata ai piedi delle Ande ecuadoriane, nella provincia amazzonica di Morona Santiago. Il nome deriva da una razza di pipistrelli chiamata «Tayos», che popola abbondantemente i suoi locali. L’entrata si apre a un’altitudine di 520 metri, in una zona montagnosa irregolare al limitare della foresta. Un camino verticale si getta nel vuoto per 63 metri, con un diametro alla bocca di circa 2 metri. A partire dal fondo si sviluppa un percorso di 5 chilometri, con camere abbastanza ampie da contenere una cattedrale.
La zona è abitata dagli indigeni Shuar o Jívaro, il cui popolo è rimasto indipendente per secoli, resistendo ai tentativi di conquista sia degli Inca sia dei missionari spagnoli. Gli Shuar vivono ai margini della foresta amazzonica ecuadoriana, distribuiti fra le colline ai piedi delle Ande (muraiya shuar) e le pianure più a est (achu shuar), sforando in territorio peruviano.
Gli Shuar, oggi cattolici, praticarono una religione shamanica fino agli inizi del XX secolo, quando furono convertiti dai padri Gesuiti. In particolare, credevano che l’anima di uno Shuar morto in pace si tramutasse in wakanì, una sorta di «spirito guida». Una morte violenta generava invece un muisak, uno spirito malvagio che possedeva i nemici.
L’ammissione al gruppo degli adulti comprendeva un rito di passaggio: all’età di otto anni, i ragazzi venivano condotti dai padri a una cascata vicina, per un periodo da tre a cinque giorni. Durante questo tempo bevevano solo acqua di tabacco, finché a un certo punto ricevevano un’erba allucinogena chiamata maikua (Datura arborea, Solanacee).
Grazie alla maikua i ragazzi accedevano alle visioni create da un wakaní: se il candidato fosse stato abbastanza coraggioso avrebbe potuto toccare la visione e assorbire il wakaní. Questa «unione» avrebbe notevolmente fortificato il ragazzo, mentre la possessione da parte di più wakaní l’avrebbe reso invincibile.
La possessione da parte di un muisak, invece, permetteva ai maschi shuar di controllare il lavoro delle proprie mogli e figlie. Le donne coltivavano manioca e fabbricavano la chicha (birra di manioca), che insieme fornivano alla dieta shuar la maggior parte delle calorie e dei carboidrati; così il loro lavoro diventava cruciale al mantenimento della vita biologica e sociale.
Per assorbire il muisak, gli uomini shuar rimpicciolivano le teste dei nemici uccisi in battaglia, affumicandole con un complesso procedimento. Alla fine del XIX e durante il XX secolo gli europei e i coloni americani iniziarono a scambiare prodotti, tra cui fucili da caccia, in cambio delle teste rimpicciolite (tzantzas). Ciò provocò un aumento delle guerriglie locali, contribuendo allo stereotipo dello Shuar violento.
Il rapporto tra gli Shuar e la caverna assume toni di reverenza religiosa. Quando si avvicinano alla Cueva, essi intonano canti in onore del «signore della grotta», affinché li preservi da incidenti e da punture di insetti velenosi.
L’archeologo ecuadoriano Pedro Porras visitò la grotta negli anni Quaranta, riportando vasi e monili in ceramica e pietra, oggi conservati al museo Weilbauer, dell’Università cattolica di Quito. I reperti furono inviati all’Università di Colonia per una datazione col metodo della termoluminescenza, ottenendo la data del 1500 a.C. Il dottor Porras concluse che la grotta era stata la tomba di un importante personaggio aborigeno, probabilmente un governante. Oggi il custode dei reperti e direttore dell’intero museo è il figlio di Porras, Patricio Moncayo.
I reperti di Porras (ora visibili al museo) finirono in qualche scaffale dimenticato fino agli anni Ottanta, tanto che nel 1964 la grotta fu esplorata dall’ungaro-argentino Juan Moricz, ritenuto a lungo il primo visitatore della Cueva. Moricz dichiarò di aver trovato un tesoro di lamine metalliche che però non mostrò mai a nessuno. Egli scrisse comunque un rapporto di denuncia e lo consegnò al proprio avvocato, Gerardo Pena Matheus, che lo conserva ancora oggi nella propria abitazione. Un estratto del testo, protocollato alla notaria di Uaiakil, riporta le seguenti parole:
Ho trovato oggetti preziosi di grande valore culturale e storico per l’umanità, che consistono in lamine metalliche incise con segni e scrittura ideografica, una vera biblioteca di metallo che contiene la cronologia della storia umana. Tali oggetti erano raggruppati in varie e distinte cavità.6
Moricz aggiunse di aver trovato una vera e propria città sotterranea. Percorrendo il corridoio a est, dopo il camino d’ingresso, si incontra in effetti una struttura curiosa, una muraglia alta più di 10 metri e larga altrettanto, composta da blocchi squadrati (5 × 2 × 1 metri circa). Il muro s’interrompe a 2 metri dal suolo, disegnando un arco dal soffitto piatto e liscio, battezzato «Arco Juan Moricz». A pochi passi dall’arco si apre un tunnel regolare di sezione 1 × 1 metri e lungo 100 metri, che conduce al primo grande locale, largo 12 e alto 20 metri. Seguono altri corridoi e stanzoni, fino al famoso «anfiteatro» al termine del percorso.
Nel 1969 partì la prima spedizione formale, a cui partecipò lo stesso Pena. Nel 1976 l’ingegnere José Stanley Hall pianificò e diresse una spedizione scientifica con l’appoggio del governo britannico: vi presero parte 120 persone, tra cui archeologi, biologi e botanici, provenienti dall’Ecuador e dal Regno Unito, per una spesa totale di oltre 2 milioni di dollari. Nel gruppo figuravano militari scozzesi e membri dell’intelligence britannica, insieme all’astronauta Neil Armstrong, nominato presidente onorario. Al termine dell’ispezione i geologi inglesi rilasciarono la seguente dichiarazione: «La Cueva de los Tayos non costituisce un monumento archeologico, come è stato detto, ma geologico. Sono antiche formazioni la cui morfologia naturale non è stata modificata dall’uomo. La grotta può essere classificata come una delle più importanti in Sud America».7
Non c’era nessuna città sotterranea: i blocchi squadrati erano stati creati dalla naturale azione erosiva dell’acqua. Tali conclusioni sono state confermate dalla spedizione ecuadoriana del 2010, guidata dal capitano Daniel Flore.
Torniamo ora ai reperti, soffermandoci sui presunti rinvenimenti di Juan Moricz. Stando alle sue parole, oggetti simili sarebbero appartenuti a padre Crespi, parroco di Cuenca, una cittadina 90 chilometri a ovest della Cueva. Si tratta di 5000 pezzi, soprattutto lamine, incisi con disegni e iscrizioni. Tremila pezzi sono di oro puro, con inserti in pietre preziose. Il dato sorprendente riguarda i caratteri delle incisioni, identici a quelli riscontrati in Calabria sui reperti della collezione Tolone. Gli Shuar hanno donato i loro oggetti a padre Crespi nel corso degli anni, formando man mano l’attuale collezione. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1982, la collezione è passata in eredità all’ordine salesiano di Cuenca.
Potremmo supporre che gli oggetti metallici siano contemporanei alle ceramiche del dottor Porras; in tal caso dovremmo valutare l’ipotesi che i Feaci fossero giunti nel Nuovo Mondo già intorno al 1500 a.C., o al posto loro un altro popolo del mare. I viaggi transoceanici avrebbero consentito lo scambio di manufatti provenienti da ogni parte del Mediterraneo e del Medio e Vicino Oriente. Questi navigatori erano davvero così abili come li ha descritti Omero?_
Frandin di Glozel
Tremila reperti con lo stesso tipo di iscrizioni furono ritrovati a Glozel, un villaggio a sudest di Vichy, in Francia. Era il 1924 quando il giovane contadino Émile Fradin si imbatté in una sensazionale scoperta: stava arando il suo campo quando il terreno cedette sotto il peso dei buoi, rivelando una fossa colma di tavolette d’argilla, sculture, urne, pietre e persino ossa riccamente decorate. Tra il 1924 e il 1930 gli archeologi continuarono a estrarre reperti, liberandoli da strati di terreno la cui formazione era databile tra il 17.000 e il 15.000 a.C. Nel 1925 furono rinvenute ossa umane gigantesche, crani grandi il doppio del normale, impronte di mani enormi, oltre a monili fatti su misura per simili arti. Le tavolette sono cosparse d’iscrizioni, sebbene le teorie ufficiali neghino l’esistenza della scrittura in quell’epoca remota. Su alcune pietre è addirittura disegnata una renna, animale scomparso da quelle latitudini alla fine dell’ultima Era glaciale. Nonostante i tentativi di screditare la scoperta, nel 1974 la termoluminescenza ha confermato le datazioni stratigrafiche.
Le tavolette di Glozel attirarono immediatamente l’attenzione di James Churchward, un famoso colonnello inglese che aveva da poco superato i settant’anni. James era fratello del massone Albert Churchward e nel 1926 avrebbe dato alle stampe la sua opera più famosa, dal titolo eloquente di Mu, il continente perduto.
All’età di 27 anni era stato inviato dal governo inglese sull’altopiano del Deccan, nell’India meridionale, e qui era entrato in contatto con il sommo sacerdote del tempio indù di Hampi, nello Stato di Karnataka. Era il 1868 e il paese era martoriato da una grave carestia che avrebbe lasciato dietro di sé cinque milioni di cadaveri.
Churchward scoprì di avere in comune con il sacerdote una grande passione per l’archeologia, così che i due divennero presto amici e il colonnello si stabilì in pianta stabile nel tempio nelle vesti di aiutante. Un giorno era intento ad ammirare un’iscrizione sul muro interno dell’edificio, quando il sacerdote gli si avvicinò e gli rivelò che si trattava di una lingua estremamente antica, la cui interpretazione era nota ai soli iniziati. Aggiunse che all’interno del tempio esistevano svariate tavolette con iscrizioni nella stessa lingua, facenti parte di una collezione molto più vasta. Neanche a dirlo, i caratteri erano dello stesso tipo riscontrato a Glozel, Cuenca, Olney e Girifalco.
Le tavolette di Hampi erano venute alla luce in un sito dimenticato delle sette città sacre dell’India, una tra Varanasi, Haridwar, Ayodhya, Mathura, Dwarka, Kanchipuram e Ujjain. Il sacerdote disse a Churchward che le tavolette erano state scritte migliaia di anni prima dai Sacri Fratelli Naacal, in un linguaggio oscuro e pregno di significati esoterici.
I Naacal sarebbero arrivati in Asia 15.000 anni fa, dopo che un cataclisma avrebbe fatto sprofondare la loro patria: il continente Mu o Lemuria. Forse si tratta ancora dei Sette Sapienti, tanto più se pensiamo che le loro navi avrebbero raggiunto ogni angolo del mondo, portando con sé la scienza, la religione e le rotte commerciali. Gli stessi Veda affiancano agli Arii (i Pelasgi), venuti da Occidente, un secondo gruppo umano - benché ristretto - approdato in India da un luogo oltre mare. Sono i "Brighus", un ordine di adepti iniziati alle antiche conoscenze e guidati da un "re-serpente" chiamato Nahusha.
La sacralità dei reperti di Hampi era tale da proibire l’apertura delle loro custodie, ma la curiosità dei due uomini era molto maggiore del senso del dovere. Le tavolette si rivelarono un impasto di argilla cotta al sole e il sacerdote le tradusse integralmente, educendo al contempo il suo ospite sulla lingua dei Naacal. Stando a Churchward, il contenuto avrebbe contemplato la creazione del mondo e dell’uomo, il quale sarebbe apparso per la prima volta a Mu, un vasto territorio ondulato che si estendeva nell’Oceano Pacifico. Il confine settentrionale coincideva con le attuali isole Hawaii, mentre il confine meridionale tracciava una lunga linea tra l’Isola di Pasqua e le Fiji. Mu era ricco di vegetazione tropicale, fiumi, laghi e grandi animali. Misurava 8000 chilometri da est a ovest e 5000 da nord a sud, con una popolazione che al culmine della sua storia contava 64 milioni di individui, divisi in 10 tribù o stirpi e governati da un unico re-sacerdote di razza bianca detto Ra-Mu.
In questo senso riscontriamo una somiglianza con l’Atlantide di Platone, dove esistevano 10 re che governavano 10 regioni, pur restando sottomessi a un singolo re centrale. Infine il dettaglio della «razza bianca» potrebbe riferirsi alla solita razza pelasgica, bianca dai capelli biondo-rossicci e gli occhi chiari.
Il regno di Ra-Mu si autodefiniva «impero del Sole» e la religione praticata era unica per tutti gli abitanti: essi adoravano una divinità solare indicata con il nome fittizio di «Ra», mentre il vero nome non si poteva né scrivere né pronunciare.
Gli abitanti di Mu credevano nell’immortalità dell’anima e del suo futuro ritorno a Dio. Erano fieri naviganti, architetti della pietra e scultori. I «muani» fondarono diverse colonie, tra cui l’impero di Mayax in America, l’impero Uighur nell’Asia centrale e nell’Est europeo e il regno dei Naga nell’Asia meridionale. Uighur avrebbe avuto la capitale nel deserto di Gobi, in Cina, dove sorse più tardi l’antica città di Khara-Khoto, sulla riva sudoccidentale del lago Baykal. L’archeologo russo Pyotr Kozlov scavò le rovine del sito tra il 1907 e il 1909 e scoprì una tomba dipinta a 15 metri di profondità, vecchia almeno 18.000 anni. Al suo interno c’erano i resti di un re e di una regina adornati con pendenti che riportavano le insegne di Mu: una M, il Tau e un cerchio attraversato da una linea verticale.
Il colonnello trovò altri dettagli sulla fine di Mu in un manoscritto venuto alla luce in un antico tempio di Lhasa, in Tibet. Infine, l’archeologo William Niven scoprì alcune città presso il lago Texcoco, in Messico, che 7000 anni fa erano state sepolte dalla lava del vulcano Ajusca. Nel 1921 Niven raccolse qui ben 2600 tavolette che facevano riferimento a Mu. Purtroppo, come spesso accade in questi casi, le tavolette andarono smarrite (o furono sequestrate) durante il loro trasporto in Inghilterra.
Burrows Cave
La caverna nota come Burrows Cave prende il nome dal suo scopritore, Russell Burrows di Olney, Illinois, che la esplorò nei primi anni Ottanta.8 Centinaia, se non migliaia, di manufatti, molti con ritratti umani e iscrizioni, sono stati recuperati dalla grotta col benestare del proprietario del terreno.
Dopo Burrows, nessuno vi è mai più entrato: una legge del 1988 dell’Illinois ha infatti espropriato il terreno, trasferendo allo Stato il controllo della grotta e il possesso del suo contenuto. A chiunque è proibito entrarvi, e sono previste sanzioni penali per i trasgressori. Ci viene il sospetto che la legge sia stata promulgata appositamente per nascondere informazioni «scomode». C’è quindi il pericolo che i manufatti rimasti nella grotta finiscano sepolti in qualche museo statale e non siano mai resi noti.
Molte delle iscrizioni consistono in lettere sparpagliate che non si possono tradurre con sicurezza. Molte altre sono disponibili soltanto in fotografie sfocate. A ogni modo sembrano esistere vari tipi di scrittura, compresa la scrittura di Glozel, Cuenca e della raccolta Tolone. Per quanto riguarda i reperti egizi, è opinione comune che si tratti di manufatti mercanteggiati da Shardana o Fenici, per i quali sussistono inequivocabili ritrovamenti in Brasile. Lo stesso vale – al contrario – per i dischi e le statuette zapoteche ritrovate in Puglia a inizio 2012.
I destinatari del mercato fenicio comprendevano gli indiani Hopi. Questa tribù di nativi sosteneva di provenire da un mondo sotterraneo chiamato «Sipapuni», occupato 5000 anni fa da una razza «lucertiforme». Un complesso antichissimo di gallerie che si estende sotto Los Angeles è stato rintracciato nel 1933 dall’ingegnere minerario Warren Shufelt e in quel luogo ancora oggi si compiono rituali di scuole esoteriche. Nel 1909 G.E. Kincaid ha scoperto una città sotterranea vicino al Gran Canyon, in Arizona. Era grande abbastanza da ospitare 50.000 persone e sul posto sono stati trovati dei corpi mummificati che secondo il capo missione, S.A. Jordan, erano di origine orientale o probabilmente egizia.9 Furono rinvenuti anche numerosi manufatti, compresi utensili di rame duri come acciaio.
Iscrizioni madianite (dette anche proto-sinaitiche o proto-fenicie) sono state rinvenute da James R. Harris sulle rocce di caverne e strapiombi in sei diversi stati nel Sudovest degli Stati Uniti. Tra queste figura il nome di Yahweh nei tre modi tradizionali già rinvenuti nelle rocce del Sinai, ovvero Yah, Yahh, e Yahu. Harris ha confrontato ben 120 iscrizioni del Negev (Sinai nordorientale) con 400 iscrizioni americane, ed è arrivato all’inevitabile conclusione che uomini del Sinai adoranti Yahweh avevano trovato la strada per raggiungere l’America quantomeno 3500 anni fa.10
In America i Fenici istituirono nuove logge dell’Occhio che nei secoli successivi si mantennero in costante contatto con le loro consorelle in Europa. Tant’è vero che il Nuovo Continente fu colonizzato nel momento più propizio, come se i Conquistadores avessero una «talpa» all’interno dei popoli indigeni. Gli Aztechi aspettavano il ritorno di un dio bianco e barbuto chiamato Quetzalcoatl (di cui abbiamo discusso abbondantemente in The Three Ages of Atlantis). Cortés incarnava fisicamente il dio tanto atteso, e non a caso le sue navi attraccarono nel golfo di Veracruz, proprio il luogo che secondo le profezie avrebbe visto l’approdo di Quetzalcoatl. Le profezie includevano una data, che tradotta nel calendario Giuliano corrispondeva al 1519, anno dell’arrivo di Cortés. Gli Aztechi credevano che il dio avrebbe indossato un abito consono al suo appellativo di «serpente piumato», così che Cortés approdò in Messico indossando delle piume. Anche la croce cristiana, ostentata dai coloni, apparteneva ai simboli del dio. Il popolo azteco e il suo re Montezuma credettero che Cortés fosse il dio tanto atteso, e fu questo vantaggio che gli permise di distruggere un impero con l’impiego, pensate, di soli 58 uomini.
Nel settembre del 1993, Burrows ha donato una pietra contenente delle iscrizioni alla dottoressa Beverley Moseley, della Midwestern Epigraphic Society (Columbus, Ohio). Burrows sostiene di aver trovato la pietra nel 1984, nell’«Area 4» del corridoio principale. I manufatti di quest’area erano sepolti nell’argilla, trasportati da un’alluvione che avrebbe insabbiato gran parte del passaggio. La pietra in questione figura tra le più grandi della raccolta; un lato della pietra è ricoperto da un’iscrizione lunga e ben organizzata, sufficiente a gettare qualche luce sulla sua natura.
Si possono distinguere chiaramente 37 lettere, sovrastate sulla cima da un simbolo che assomiglia al Tanit fenicio. Sotto l’iscrizione appare invece un occhio umano destro.
Le lettere mostrano tracce di erosione, segno di un lungo periodo di esposizione all’aria. L’occhio umano sembra suggerire un orientamento, benché non sia ovvio il verso di lettura, da sinistra a destra o da destra a sinistra.
Sull’altra faccia è disegnata la testa di un uccello, insieme a 27 lettere sparpagliate. È anche presente una linea, intersecata da gruppi di barre ortogonali, simile a un’iscrizione ogamica (la scrittura dei Celti).
Gran parte dei ricercatori accademici continua a negare l’originalità dei reperti, facendoli passare per l’opera di un falsario alla ricerca di gloria. È sicuramente possibile che i signori Tolone, Crespi, Fradin e Burrows abbiano aggiunto qualche pezzo contraffatto, copiando lo stile e i caratteri dei pezzi originali. Potrebbero averlo fatto per mantenere accesa la propria fama, continuando a mostrare al mondo nuove scoperte quando in effetti erano esaurite. Tuttavia è impossibile che abbiano inventato da zero tutti i reperti, compresa una forma di scrittura identica per tutti e quattro.